Il sentimento è ciò che lega l’essere umano ai frammenti di realtà che si celano nella propria psiche e in quella più intima dimensione che sovrasta la parola come fonte prima di comunicazione e di espressione. La sensazione affettiva è afona; è un bisogno inesprimibile di energie astratte che si vanificano nei flussi di coscienza del pensiero; è il fulcro della meditazione e della riflessione: è tutto ciò che un artista possiede per far vibrare la propria arte e fare delle proprie opere un organismo vitale, capace di donare allo spettatore il senso di trovarsi di fronte a un’autobiografia estetica densa di pathos. Nelle opere di Maria Chiara Cecconi risuona l’emozione drammatica e struggente del dolore e della perdita: l’assenza di un qualcosa che continua a vivere nell’invisibilità della vita quotidiana, ma che palpita nel respiro del cuore e nella percezione estrema del ricordo. Una memoria lontana e sempre esistente, vanificata nella nostalgia di un tempo passato e di un presente incomprensibile e indicibile. Una vita dedita alla concretizzazione di un segno che ritorna costantemente nel labor lime del disegno e dell’incisione: simboli e visioni regalano tangibilità alla forza del pensiero che si pone oltre il dramma personale e si accumuna al dramma umano della morte e dell’oblio; incisioni e sculture alacremente modellate seguono l’ispirazione dell’attimo per costruire un’architettura emotiva che dall’introspezione personale giunge direttamente alla coscienza spettatrice, ignara dei palpiti sentimentali che muovono la creazione. L’Arte di Maria Chiara Cecconi è una prassi colma di soggettività, è un percorso intimo nei labirinti dell’Io, è un’esperienza donata al mondo in tutta la sua forza evocativa e comunicativa. L’opera d’arte non è altro che una sfida al nulla a cui l’artista non si arrende, tenendo sempre vivo in se stessa ciò che inevitabilmente l’annienta. È l’esorcizzazione del tragico che fa di questa grande artista la portavoce del turbamento esistenziale dell’essere umano moderno.
Nella splendida cornice delle sale della Sartoria teatrale fiorentina, ricca di storia e di passione, di tessuti, abiti e di esistenze da raccontare, prendono vita le opere di Maria Chiara Cecconi: tre installazioni che dialogano con le collezioni della cultura artigianale della più antica sartoria di Firenze ancora attiva. Un luogo la cui importanza risuona nel tempo, poiché lì il personaggio teatrale si “veste” del proprio ruolo e completa la propria figurazione estetica, la propria apparenza e fa dell’attore una presenza scenica, in grado di catturare l’attenzione dello spettatore oltre la parola recitata e oltre l’azione performativa. Nel luogo in cui la cultura teatrale fiorentina si è costruita atto dopo atto si inserisce delicatamente, silenziosamente – quasi in punta di piedi – il percorso intimo e profondo dell’artista, legato al dolore e al ricordo, espresso nelle sfumature del bianco e del nero, ove gli opposti si attraggono e si respingono nel delirio amoroso e vitale del battito cardiaco nel sottofondo musicale creato per l’occasione dal gruppo Werner di Alessia Castellano e Stefano Venturini. Battiti, palpiti e aritmie – tratte da vecchie rilevazioni cardiache del padre – si uniscono e si amalgamano alle note evocative del rock acustico del duo, in un sottofondo musicale particolare che avvolge le tre sale e abbraccia le opere in una meraviglia atmosferica senza tempo e senza spazio.
Nella prima sala predomina il nero e il senso di soffocamento: l’oscurità che annienta la luce della coscienza e della ragione, della speranza e della rinascita. Nella tenebra dolorosa e struggente s’intravede un busto sospeso nel vuoto lacerato nell’addome e dagli stessi materiali del quale è composto. Nello spacco fra la carta riciclata con i reperti di una tragica malattia s’intravede una storica fotografia in bianco/nero, il cui ricordo si perde nel tempo e una lente d’ingrandimento focalizza l’attenzione su un volto misterioso. Nell’opera passato e presente costituiscono una sintesi dialettica incredibilmente espressiva, nel loro essere così vicini e così distanti come il bianco e il nero, come la vita presente e il ricordo di una donna che troppo presto si è resa assente, ma che ha lasciato un vuoto incolmabile, sostituito da una semplice e preziosa immagine. È nel percorrere a ritroso le proprie esperienze che l’artista percepisce se stessa là dove la strada sembra perdersi senza motivo nei labirinti dell’irrazionale e dell’illogico; è nel ricordo e nella presenza/assenza di colei che ha generato la vita che l’artista si riconosce e prende coscienza della propria esistenza vissuta in una continua tragedia e nel senso perpetuo della perdita e dell’abbandono; è nella labile distanza fra bianco e nero, presente e passato, assenza e presenza che l’Io estetico denuncia con forza il proprio esserci, così come al cuore basta un battito per affermare al mondo che la vita c’è oltre la parola e oltre i sensi. L’installazione è un inno alla memoria personale che non cede all’oblio, ma rivendica che la storia, come fonte prima di conoscenza, è l’urlo di una vita che continua a lottare nel dolore di ieri e di oggi, nonostante l’indifferenza del mondo, la solitudine e il silenzio.
Nella seconda stanza il distacco si annienta in un caldo abbraccio fra il bianco e il nero, l’infanzia e l’età adulta. Attorno a una colonna tessuti monocromatici si avvinghiano dall’alto verso il basso, in un turbinio di affetti e di manifestazioni emotive che improvvisamente si divide tra il candido avvolto da un freddo e costringente fil di ferro e la tenebra che si perde in se stessa senza fine e senza principio. L’abbraccio salvifico nasce e muore, si genera e si scioglie infinite volte, come una spirale aurea che non ha né inizio né fine, capace di sopravvivere al tempo oltre la vita e la morte, oltre la gioia e il dolore, oltre il nulla e la speranza di una rinascita.
Nell’ultima sala il bianco domina incontrastato nelle velature del vedo-non vedo di una nebbia sospesa che lascia intravedere cuori sanguinanti, racchiusi in pesanti cornici di piombo, a sottolineare la sofferenza che aleggia nella mente dell’artista ancora consapevole che non è giunto il momento di voltare pagina, che non è ancora l’attimo giusto per dimenticare e che quell’inesprimibile dolore è ancora presente e vive nel bisogno di essere espresso nel trauma quotidiano dell’esistenza umana.
In questa doppia atmosfera di luce e ombra l’abito costituisce una presenza importante, poiché esso avvolge e valorizza ciò che l’animo percepisce e nasconde. Il tessuto si fa corpo estetico, parte integrante delle installazioni, evocando le storie che ogni singolo pezzo sartoriale porta in sé in un connubio di amore e artigianalità espressiva. Nell’esposizione l’abito rappresenta tutto ciò che il corpo dell’uomo rivaluta alla luce della propria interiorità e che l’artista ha voluto indagare consapevole eccezionale forza comunicativa che l’abbigliamento possiede, unendo il principio estetico dell’opera d’arte alla capacità tecnica del sarto, intento a prediligere il particolare e la forma perfetta.
Delirium cordis non è solo una mostra, ma una vera e propria dichiarazione poetica di lotta per la vita, contro la morte e l’oblio, contro il vuoto e l’assenza. Tre installazioni che esprimono l’incredibile forza comunicativa del sentimento, che concretizzano ciò che di più inesprimibile esiste: è l’anima poetica che dialoga con se stessa e con il mondo che prima c’era e ora non vi è più, abbracciandolo nel dramma quotidiano di un pensiero che lavora costantemente sulle tracce del proprio presente e sui materiali che hanno fatto della donna deturpata dal male un’artista incredibilmente originale e consapevole della meraviglia che si cela dietro la creazione artistica. Delirium cordis sfugge la realtà sensoriale per porsi oltre un destino fugace e transitorio. Le installazioni nascono come autentico modo di sentire e percepire il palpito vibrante dell’effimero e della vanità delle cose del mondo, poiché per Maria Chiara Cecconi la vita, l’Arte e la creazione sono un’aritmia dell’anima, perennemente tesa alla rivelazione e alla ricerca epifanica, costantemente in bilico fra l’annientamento e la rinascita. Delirium Cordis è un dialogo intimo fra la storia che gli abiti della Sartoria teatrale fiorentina portano in sé e l’esperienza personale e autobiografica dell’artista in una sintesi emotiva che si lascia cogliere solo nell’attimo fuggente di un battito cardiaco.
Laura Monaldi